Disfarsi dei vecchi giocattoli? Mai senza dirlo ai figli

di Federica Mormando

 Quando è ora di buttare i giocattoli vecchi dei figli, ancora bambini o già grandi? Lo sarà quando sarà ora che qualcuno butti via a nostra insaputa i nostri ricordi: quella bambola, quella macchinina o quel foglietto stropicciato che conserviamo chissà dove, che non prendiamo mai in mano, ma che sappiamo esserci.

  Dai racconti che mi fanno ragazzi e adulti, quasi sempre sbuca dolore e offesa per un diario, un disegno, un gioco che qualcuno — la mamma — ha buttato via a loro insaputa. Il fatto è che i giocattoli, e in generale le cose dei figli, non si devono buttare via mai. E mai senza chiedere il permesso. Chi lo fa, compie un furto, una mancanza di rispetto, una violazione della privacy peggiore del curiosare tra i fogli del diario. E un tradimento. Un giorno, viene in mente «quella» cosa, che si crede di avere. La si cerca invano. Si chiede: sai dov’è... A questo punto la mamma deve scegliere fra una bugia a gambe corte (l’avrai nascosta tu, disordinato come sei) o la confessione. Se la coscienza non è del tutto a posto, l’ammissione del reato ha la scorza dell’accusa: «Se tu fossi meno disordinato!» O della giustificazione: «Non ci sta tutta la roba che tieni». Seguono da parte dei figli offesa, delusione, sensazione di un diritto violato. E una traccia di sfiducia: la casa non è quella fortezza riparata che si credeva.

  La sensazione è analoga allo smarrimento che si prova dopo il passaggio dei ladri. Esagerata? No, perché la violazione è tale a qualunque cosa si riferisca e la perdita è irreversibile. L’oggetto buttato via diventa
all’improvviso importantissimo. Non lo usavi più, dice il genitore. Ed è un’altra mazzata: si usano nella mente, certe cose. Rappresentano una storia che nessun altro sa né può sapere, sono una parte di noi. Nella perdita, ne svelano l’essere un simbolo. Quando non ci sono più, ci si rimprovera di non averle meglio custodite o nascoste, e sale una rabbia impotente contro chi le ha buttate, pare di aver perso un tesoro, si teme che sbiadiscano, come i contorni del viso di una persona da tanto tempo scomparsa.


  Tutto questo può sembrare esagerato, ma non lo è se si pensa a come tutti noi abbiamo bisogno di simboli che rappresentino e rafforzino la nostra identità. Già Diogene, quello della botte, sosteneva che la pace si raggiunge nel privarsi di ogni oggetto, nel non attaccarsi a nulla di materiale, convinzione condivisa da ogni asceta. Dovremmo infatti aver dentro di noi le nostre certezze, custodire l’amore per le persone care e le tracce delle nostre esperienze nella memoria e nel cuore, staccati dai simboli esteriori della nostra identità e delle persone care. Dovremmo diventare indifferenti alla perdita delle cose, anzi considerare di non possederne, per raggiungere l’autonomia. I ricordi al posto delle fotografie. Nessuno può rubare ciò che è dentro di noi. Ma per lo più siamo fragili, anche da adulti, e fotografie e oggetti particolari ci permettono di non distaccarci mai da eventi e persone. Qualcosa di noi è rimasto in quel giocattolo che saremo forse contenti di regalare ai nostri figli, ai nipoti, come pezzo di un’infanzia mai del tutto conclusa. Quando la casa trabocca e riteniamo che sia arrivato il momento di regalare o buttare delle cose che appartengono ai figli, dobbiamo parlargli, far decidere a loro se vogliono o no privarsi di qualcosa. Senza pressarli: sappiamo che quasi tutto si può tenere, conquistando la fiducia da parte dei figli nel rispetto che abbiamo per loro. E preparando il momento emozionante, un po’ felice e un po’ malinconico, non così tanto lontano, in cui tenendo in mano un pupazzo scolorito diranno: «Mamma, ti ricordi?».

Corriere della Sera, 10 Settembre 2012, pag,25

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