I neonati si possono salvare anche con l’informazione


Raccomandazioni Diminuiscono i casi di «Sids», ma le cause non sono chiarite. Si sa però come ridurre il rischio

Un’Associazione contro la «sindrome della morte in culla»

di Ruggiero Corcella

  Quando la scienza medica e la ricerca non riescono a trovare risposte definitive sulle cause di una malattia, e di conseguenza neppure le cure, la strada maestra resta la prevenzione.

  Succede per la Sids (acronimo di Sudden infant death syndrome), la sindrome della morte improvvisa in culla, che colpisce i bambini tra un mese e un anno di età. Una sindrome-rebus fin dalla sua definizione: la sigla «Sids» infatti non corrisponde neppure a una precisa patologia. Si applica quando si possono escludere (previa autopsia e analisi accurate sul bambino e sulle circostanze della sua morte) tutte le altre cause note per spiegare il decesso del neonato, dalle malformazioni agli eventi dolosi. L’epidemiologia dice che l’incidenza della Sids a livello internazionale è per fortuna contenuta a uno per mille nati vivi.

   Ma quando colpisce, semina disastri. Da Varese, dove i maggiori esperti in Italia e le associazioni dei familiari si sono incontrati e confrontati mercoledì scorso nel terzo congresso nazionale «Una culla per la vita», arriva un dato confortante: «Dal 1990 al 2009, nel nostro Paese abbiamo osservato una riduzione di circa il 60% della mortalità per Sids — sottolinea Cristina Montomoli, specialista in Statistica medica dell’Università di Pavia che ha rielaborato gli ultimi dati Istat —. Ci attestiamo tra lo 0,04 e lo 0,11 casi per mille nati vivi. La mortalità nei maschi si è sempre mantenuta
superiore a quella delle femmine. Il trend è decrescente in modo statisticamente significativo».

 Lo conferma Ada Macchiarini, dell’associazione Semi per la Sids: «In questi vent’anni si è registrata una netta riduzione dei bambini morti per la sindrome». Merito soprattutto degli sforzi portati avanti da medici e familiari per diffondere il più possibile le informazioni sulla sindrome e i consigli sulla sicurezza del sonno dei bebè (vedi grafico), sia tra gli addetti ai lavori che tra i genitori. 
  «Questo grazie a un semplice opuscolo», ribadisce Ada Macchiarini, preparato in collaborazione con pediatri, neonatologi e ostetriche sotto l’egida del ministero della Salute. «Basterebbe provare a estenderlo a tutto il Paese — prosegue Macchiarini — e magari a far crescere l’informazione attraverso linee guida, raccomandazioni e procedure condivise».

  La sindrome resta però la principale causa singola di morte, dopo il primo mese di vita. Per questo, ribadiscono gli esperti, bisogna continuare a studiarla. E soprattutto ha effetti devastanti sulle famiglie, che ancora oggi appunto non sono informate a sufficienza. Quella dell’esclusione, dell’argomento tabù da tenere nascosto o per lo meno sottotraccia, sembra essere un po’ la cifra della storia della Sids. «Siamo partiti negli anni 90, quando le ostetriche non volevano neppure parlarne alle future mamme nei corsi preparto» ricorda Luigi Nespoli, direttore della Pediatria dell’ospedale Macchi di Varese, sede del Centro di riferimento Sids per la Lombardia che ha organizzato il congresso.

  Anche a livello internazionale si è visto che le campagne di informazione e di formazione condotte in modo capillare e continuo hanno prodotto una drastica caduta dei tassi di mortalità. L’obiettivo è di modificare uno dei fattori alla base del «modello di triplo rischio» individuato da diversi centri di ricerca per spiegare la catena di eventi che portano alla Sids. In base a questo modello, come spiegano gli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità, in primo luogo il bambino, apparentemente sano e normale, soffre in realtà di una piccola anomalia nel sistema di regolazione dei ritmi cardiaci (sindrome del QT lungo), respiratori o generali del proprio organismo.

  Si verificano poi nei primi mesi di vita cambiamenti nei ritmi del sonno, in quelli respiratori e/o cardiaci, nella pressione o nella temperatura corporea. Infine eventi «ambientali», come il fatto di dormire in posizione prona, l’esposizione al fumo passivo e piccole infezioni respiratorie, aggravano la situazione, inducendo la Sids.

  Esiste una predisposizione genetica alla sindrome? «L’interesse per gli studi in questo campo è andato aumentando — risponde Laura Filonzi, genetista dell’Università degli Studi di Parma —. All’ultimo Congresso mondiale sulla Sids, a Baltimora, ne sono stati presentati cinque che riguardano il sistema immunitario, la neurotrasmissione e infine l’analisi dell’intero genoma. Tutti mettono in evidenza una predisposizione genetica, che in concomitanza di alcuni fattori ambientali può portare al decesso».

  La strada tuttavia è ancora lunga. Proprio al Congresso di Baltimora è stata rilanciata una serie di concetti: «È necessario riempire un vuoto, prevedere e risolvere tutti gli aspetti legati alle morti improvvise — riferisce Cinzia Magnani, responsabile del Centro Sids dell’Emilia Romagna all’ospedale di Parma —. Bisogna andare incontro ai bisogni delle famiglie, sia emotivi che informativi, dare delle risposte a ciò che è capitato».

  La prevenzione della Sids comincia dal dormire in posizione corretta. Per un sonno sicuro un bambino deve dormire da solo, sul dorso e nella sua culla. «Questo è l’abc — dice Raffaele Piumelli, responsabile del Centro regionale Sids della Toscana all’ospedale Meyer di Firenze —. Un anno fa la American Academy of Pediatrics ha prodotto delle Raccomandazioni su tutte le norme in materia di sicurezza del sonno, per la riduzione non solo della Sids ma di altre morti riconducibili a situazioni di sonno insicuro».

  Rispetto alle precedenti Raccomandazioni sono state introdotte alcune novità: «Ricompare il discorso della promozione dell’allattamento al seno, alla luce di nuove evidenze scaturite da metanalisi — racconta Piumelli —. È fortemente sconsigliato l’uso di alcol e stupefacenti da parte dei genitori. Le vaccinazioni vanno fatte: c’è stata polemica anni fa, perché sembrava potessero predisporre al rischio ma erano delle bufale tremende. L’informazione poi deve essere univoca e precoce, cioè data già nei punti nascita. Bisogna infine promuovere tutti gli sforzi possibili in termini di ricerca e di diffusione delle norme di riduzione del rischio». «Inoltre, non tutti sono uguali davanti alla Sids — ha puntato il dito Luana Nosetti, responsabile del Centro Sids di Varese —.

 Ci sono casi che di fatto non sono seguiti fino in fondo o vengono gestiti in modo diverso». La famiglia spesso si trova di fronte a risposte e comportamenti contraddittori da parte degli operatori sanitari. Se poi, come è previsto dalla legge in caso di morte senza una causa definita, partono gli accertamenti giudiziari, quello di papà e mamme può diventare un calvario ancora peggiore. Per questo bisogna mettere in rete i Centri esistenti, identificare un modello di comportamento comune degli operatori, essere in grado di fornire risposte tempestive attraverso team multidisciplinari. In parte ciò viene già fatto, ad esempio sia a Varese che nel Centro Sids dell’ospedale Gaslini di Genova (per la Liguria). L’informazione, che a Varese si fa a partire dalla scuola materna e senza creare traumi, resta prioritaria.

  «Dove lo abbiamo fatto — aggiunge Nosetti —, i bambini hanno poi espresso le loro idee sulla Sids attraverso i disegni, con serenità. È giusto dare l’informazione, in modo che questa consapevolezza inizi presto». Ma informare significa anche insegnare a genitori e nonni le semplici manovre di rianimazione in caso di emergenza. «La nostra ambizione più grande è però di arrivare prima della Sids — dice Nosetti — . Vogliamo identificare precocemente i soggetti a rischio. Ci aiuteranno gli studi di tipo genetico, ma anche le norme comportamentali».

Anche a scuola

È possibile parlare di questo pericolo fin dalle «materne» senza creare traumi

Corriere della Sera,18 novembre 2012, pag, 46


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