La nonna dei 15.123 bambini che erano destinati a morire

Salvati dall’aborto alla Mangiagalli di Milano. Ma non può vederli: è cieca

di Stefano Lorenzetto

  Milano, clinica ostetrico ginecologica Luigi Mangiagalli. L’ufficetto di Paola Bonzi è al terzo piano, quasi in soffitta. La Torre Velasca da una parte, la Madonnina dall’altra. «Ang Center for help sa buhay: kaliwa sakoridorfund» (Centro aiuto vita: a sinistra in fondo al corridoio). Scriverlo in filippino non basta, bisogna tradurlo anche in cinese, arabo, hindi. «Gli aborti si fanno al secondo piano, sotto i miei piedi». La direttrice del Cav ha un udito finissimo, come tutti i ciechi. Sei feti potessero urlare, li sentirebbe.  «Non mi ci faccia pensare». A volte però sente urlare le mamme mancate. «È il professor Basilio Tiso, direttore medico di presidio, a dircelo: “Se veniste giù di sotto, vi trovereste in una valle di lacrime”». Qualche gestante scappa via urlando quando è già sotto i ferri. «A quel punto in sala operatoria non sanno più che fare. E allora si dicono: “Mandiamola su dalla Bonzi”. L’ultima volta è capitato ad agosto. Una donna di 33 anni. Io avevo appena finito un colloquio con una quindicenne che non voleva tenere il suo bambino. Era un giovedì. Il lunedì l’adolescente è tornata: “Lo tengo”. È come se si fossero incontrate la vita e la morte».

  Ex maestra di bambini oligofrenici, Paola Bonzi fa questo mestiere dal 1984, tutti i giorni: sconfigge propositi di morte e li trasforma in progetti di vita. Lo fa gratis. Come potrebbe essere altrimenti? Mai sentito di nonne che si fanno pagare. E lei è l’unica nonna al mondo che ha già 15.123  nipoti. Merito suo se in questi 28 anni non sono stati abortiti, se sono nati. «No, è merito dei 6 dipendenti del Cav; dei  29 consulenti fra medici, ginecologi, ostetrici, pediatri, psicologi; dei 41 volontari». Fu il primo Centro aiuto vita aperto in Italia all’interno di una clinica dopo l’introduzione della legge 194. E che clinica. La Mangiagalli, «gran “totem” del femminismo milanese», come scriveva all’epoca il Corriere della Sera, s’era procurata una lugubre fama con il processo per gli «aborti facili» e con le statistiche nazionali che la vedevano in testa per i numero  d’interruzioni di gravidanza eseguite: in media 5 al giorno. «Non ho mai capito perché ci abbiano fatto entrare. In consiglio d’amministrazione erano dalla nostra solo i due democristiani. Due su 7. Dopo la prima votazione favorevole, il Pci ne pretese una seconda, che ebbe lo stesso esito. Penso ci abbia salvato il presidente Domenico Ceraudo, socialista, il cui voto valeva per due. I primi quattro anni fummo confinati nella sagrestia della cappella».


  La Bonzi guida una macchina costosa: 1,5 milioni di euro l’anno. Ne servirebbero almeno 2. E invece è a secco. La beneficenza non basta a coprire i tagli dell’assistenza pubblica. «Il 60% delle donne intenzionate ad abortire sono spinte a farlo da problemi economici. In questo momento ne abbiamo in carico 1.600. Nell’ultimo anno, con la crisi, sono aumentate del 32%. Come consultorio accreditato dall’Asl, riceviamo per un colloquio 19,11 euro di rimborso. Ma io devo assicurare a queste mamme almeno 500 euro al mese per un anno e mezzo. Avrei bisogno di pannolini, magari quelli che la Pampers scarta in fabbrica. E poi di pappe, omogeneizzati, corredini. Mi tocca dire alle madri: “Per il passeggino vedremo. Se ne arriva uno...”. Mi vergogno»

  Nei giorni scorsi s’è messa davanti al computer. Dieci tappini gommosi, appiccicati su altrettante lettere della tastiera, le hanno permesso di spedire un’e-mail isperata: «Per i giochi della politica mi ritrovo completamente a mani vuote». Ha lanciato un appello su Twitter:«Tre donne in corridoio in attesa di essere ascoltate per decidere se far nascere o se far morire il loro figlio. Non ho nulla da dare». Chi paga l’affitto dell’alloggio che Carina condivide in zona Bande Nere con altre quattro neomamme assistite dal Cav? Oggi non è più sola. C’è Noha con lei. Gli ha imposto il nome del patriarca biblico perché a San Paolo del Brasile, dov’è nata, abitava nel quartiere ebraico. Ma questo Noè è troppo piccolo per costruire un’arca per sé e sua madre: ha appena 45 giorni. Che Paola Bonzi, 69anni, da 47 sposata con un commercialista, veda nero nel futuro non è una metafora. «Mi ammalai a 23 anni. Un’uveite d’origine sconosciuta. Sfregandomi l’occhio destro, mi accorsi che dal sinistro ero cieca. La mia primogenita, Cristiana, aveva 4 mesi. Nel 1968 nacque Stefano. Per qualche mese brancolai nelle ombre, poi più nulla .Mentre le parlo, è tutto arancione. A tratti diventa giallo, a tratti nero. La notte è bianca, luminosa, e il fastidio aumenta. Ma la categoria della cecità nella mia testa non esiste. Vivo in questa tavolozza di colori come se ci vedessi e quindi vado a sbattere dappertutto. In questi giorni ho solo due gambe fasciate. Mi reputo già fortunata»

il Giornale, 18 novembre 2012, pag, 16


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